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Liguria

Liguria

Riviera di Levante e Riviera di Ponente. Da qualunque parte la si guardi, la Liguria sembra non poter uscire da questa forte dicotomia marina, dettata dalla sua conformazione geografica a mezza luna che letteralmente non lascia spazio all’immaginazione, e neanche alla collocazione delle sue quattro province – Genova, Imperia, Savona e La Spezia – tutte sul mare. Ma ridurre la Regione a queste due metà e alla sola zona litoranea sarebbe un errore.

Partendo dall’entroterra, Liguria significa anche montagne, o meglio, Alpi Marittime, che incoronano un paesaggio di ispide vette digradanti in colline, ricoperte da boschi spesso tutelati da parchi e riserve naturali e, verso il mare, da coltivazioni di vario genere, olivo e vite in testa. Montagne così incombenti da essere ben visibili anche pied dans l’eau, mentre si sta serenamente distesi sulla spiaggia. Un colpo d’occhio raro e che non si dimentica.

Man mano che si scende di quota, si incontrano piccoli avamposti di civiltà contadina, borghi fermi a secoli fa, dove la vita gira ancora attorno a un torchio per frangere le olive, alla ruota di un mulino, alle serre per fiori e ortaggi e a qualche bottega artigianale. A Ponente accade per esempio a Taggia, Badalucco, Dolceacqua, Dolcedo e su, fino a Triora, il “paese delle streghe”. Scene da film in bianco e nero, che a valle si colorano delle tinte vivaci delle case di pescatori che attirano milioni di turisti. In particolare, accade a Varigotti e nella piccola Noli, gloriosa ex Repubblica Marinara, e all’estremità opposta, a Levante, in quella sequenza di spettacolari anfratti denominata Cinque Terre. Frammenti di terra con paesini arroccati su speroni di roccia e terrazze costruite su pendenze vertiginose dove la mano dell’uomo ha plasmato il paesaggio a suo uso e consumo: le “fasce”, i muretti in pietra viva che disegnano gran parte della costa, altro non solo che un ingegnoso escamotage per sezionare e rendere sfruttabili i pendii di colline altrimenti impraticabili. Oggi, Vernazza, Monterosso al Mare, Corniglia, Manarola e Riomaggiore sono collegati dal Sentiero Azzurro, 18 km di panorami e scorci mozzafiato che corrono da Sestri Levante a Porto Venere, “porte” di accesso del percorso. Un’unicità assoluta messa sotto tutela con il Parco Nazionale delle Cinque Terre e, dal 1997, riconosciuta Patrimonio Mondiale dell’Umanità.

Citando la bella Porto Venere non si può non parlare delle mille suggestioni artistiche ispirate alla Liguria lasciate negli scritti di Lord Byron, Goethe, Hemingway e Mary Shelley, nei quadri di William Turner o nelle note di Richard Wagner. D’altro canto, questa è la terra del Golfo dei Poeti, di cui Porto Venere insieme a San Terenzo, Tellaro, Sarzana, Lerici e all’Isola di Palmarola è la “perla”. Da qui, risalendo verso Genova, si entra nelle atmosfere glamour e da Vip di Portofino, la cui baia sembra un’esposizione permanente del celebre Salone Nautico genovese, per via degli yacht da favola sempre all’ancora.

Da Camogli a Nervi, ecco invece il Golfo Paradiso, nome evocativo che lascia ben sperare chi si accinge a visitare gli stretti vicoli di questi borghi marinari oggi vocati al turismo più o meno luxury. Quasi un’anticipazione di quell’inestricabile groviglio di carruggi che è il centro storico di Genova, altro bene Unesco da conservare con cura, insieme al Sistema dei Palazzi dei Rolli, aristocratica reminiscenza del momento più fortunato della storia della Serenissima, la Repubblica Marinara di Genova. Là, oltre il porto ridisegnato da Renzo Piano, si riprende l’Antica Aurelia che da duemila anni collega Roma alla Francia, in un continuun di quasi 700 km lungo i quali si incontrano città, paesi, culture.

Da Pegli in giù è la volta di una sequela infinita di spiagge e borghi, passando per i quattro Comuni della Baia della Ceramica, il Golfo dell’Isola di Bergeggi, l’antica Repubblica marinara di Noli, la capitale della MTB di Finale Ligure, Alassio e il suo muretto firmato dagli artisti, davanti alle inaspettate architetture barocche di Cervo e alle ville Liberty di Bordighera. Nel mezzo, Sanremo, tappa nazional popolare che mette d’accordo tutti, con un lungomare di palme e fiori che offre a sorpresa anche due soste culturali: Villa Nobel, appartenuta proprio a quell’Alfred Nobel, l’ideatore del Premio per eccellenza, e Villa Ormond, con un giardino che è un vero compendio di botanica mediterranea.

Questo viaggio ideale non potrebbe trovare finale più adatto di quello offerto dai Balzi Rossi, a pochi minuti dal confine con la Francia: scogliera alta 100 metri in calcare dolomitico, che pare quasi riportarci sulle Alpi, i resti di una villa romana e, in una grotta a picco su un mare cristallino, un sito paleolitico fra i più importanti d’Italia. E come se non bastasse, a due passi, sul vicino promontorio di Mortola, i Giardini Botanici di Villa Hanbury, memoria di una Belle Epoque “all’inglese” che da queste parti sembra non essere ancora tramontata.

Un concentrato di bellezza naturale e “costruita” perfettamente espresso da Italo Calvino, ligure Doc, che scrisse «qui basta passare un’unghia sulla crosta della civiltà e la natura rispunta in tutta la sua gloria quasi primordiale».

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Parco Avventura Airole

Airole, Liguria

58 elementi Cosa fare e vedere

  • Museo

Museo Regionale Etnografico e della Stregoneria

Triora, Liguria

Nato dall’entusiasmo dei giovani dei Campo Eco organizzati dal Comune di Genova nel 1982-83 e dall’immediata risposta entusiastica dei trioresi, il Museo di Triora Etnografico e della Stregoneria raccoglie oggi moltissimi oggetti antichi – ma a volte ancora in uso in borgate remote del territorio comunale, come Borniga o Goina – che testimoniano una cultura contadina e pastorale particolarmente viva e palpitante.

Lungi dal voler essere solo una sterile esposizione di oggetti, il Museo di Triora invita ancora, come nelle parole del manifesto dei ragazzi del Campo Eco di tanti anni fa, a visitare il paese antico a esplorare le sue incantevoli frazioni, dove in qualche caso si potrà riscontare l’uso di attrezzi notati in queste sale.
Sarà possibile così, a contatto con una natura pressoché incontaminata, intravedere e respirare momenti di un’”altra vita”, forse in qualche modo più autentica.
L’Associazione Turistica Pro Triora, che collaborò sempre con i ragazzi genovesi, intessendo rapporti di amicizia che sopravvivono tuttora, raccolse idealmente il testimone e in stretta collaborazione con il Comune di Triora, si occupò della gestione e della custodia del museo.
Con il nuovo interesse suscitato nel 1987 dal Convegno Nazionale promosso dal Comune di Triora e dall’Università di Genova in occasione del quarto centenario dei processi per stregoneria, vennero allestite nuove sale nei sotterranei dell’edificio, dove un tempo erano le carceri.
Costanti migliorie e ammodernamenti vengono apportati tutti gli anni, grazie soprattutto all’entusiasmo di Silvano Oddo, già assessore comunale, attivissimo consigliere della Pro Triora, che ha assunto la carica di direttore della struttura.

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  • Parco Tematico / Divertimento

Parco Avventura Airole

Airole, Liguria

Il parco avventura di Airole, è un parco divertimenti, immerso nella natura. È costituito da 3 percorsi: VERDE: il percorso più facile (2 mt altezza) BLU: percorso medio facile (4/6mt altezza) ROSSO: il più difficile (5/9 mt altezza).

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  • Patrimonio culturale Religioso

Concattedrale, Palazzo Vescovile e Museo Diocesano

Brugnato, Liguria

La chiesa cattedrale risale al XII sec. e viene edificata, verosimilmente, nel momento in cui Brugnato diventa Diocesi suffraganea dell’Arcidiocesi di Genova. L’edificio, presenta uno schema planimetrico a due navate divise da pilastri colonniformi e sorge sui resti di due chiese preesistenti, la più antica delle quali, posta sotto l’attuale navata maggiore, risale ad epoca bizantina (VI secolo) .
Al centro del catino absidale, si possono ammirare tre volti in pietra sbozzata (maschere apotropaiche), con funzione rappresentativa dei tre santi Pietro, Lorenzo e Colombano, contitolari della cattedrale.
Sulla terza colonna, volto verso la navata maggiore, è un affresco, risalente al XV sec. che raffigura Sant’Antonio Abate.
Il Santo, la cui figura è inquadrata da una fascia decorativa con motivi vegetali e rosette, è riconoscibile dagli attributi che lo identificano: il tradizionale mantello, il bastone da eremita e il tintinnabulum.
Sulla parete della navata minore i recenti restauri hanno riportato alla luce un altro pregevole affresco cinquecentesco, raffigurante la presentazione di Gesù al tempio.
Vi si riconoscono il Sacerdote, al centro, con Maria e Giuseppe che offrono il Bambino Gesù su di un vassoio, insieme a due colombi. A destra sono riconoscibili San Francesco e San Lorenzo.
Di rilevante importanza è il complesso archeologico, rinvenuto già negli anni ’50 ed oggi visitabile e lasciato a vista, tramite cristalli posizionati sul pavimento moderno.
Sotto la navata maggiore sono visibili i resti di una chiesa ad aula unica di cui restano i muri perimetrali, la pavimentazione in cotto, un fonte battesimale.
Lo scavo archeologico, condotto dalla Soprintendenza Archeologica della Liguria nel 1994, ha permesso di individuare diverse fasi di ampliamento dell’impianto originario che mettono in relazione questa chiesa col primo insediamento benedettino. Sotto la navata minore sono visibili i muri perimetrali di una piccola chiesa ad aula unica cronologicamente più tarda, il cui momento di fondazione è incerto.
Il palazzo fu l’antica dimora del vescovo della diocesi di Brugnato già dal 1133; la presenza di tale edificio, eretto sulle fondazioni della più antica abbazia di San Colombano, è testimoniata in documenti e registri vescovili databili tra il 1277 e il 1321.
Nella sua storia la struttura fu più volte rimaneggiata da restauri e ampliamenti, il più cospicuo dei quali si svolse durante il vescovato di Giovanni Battista Paggi tra il 1655 e il 1663. Successive riparazioni, con innalzamento del soffitto e rifacimento completo delle coperture, furono eseguite nel XVIII secolo dal vescovo cardinal Benedetto Lomellini; le decorazioni interne del soffitto furono realizzate durante la reggenza di monsignor Francesco Maria Gentile.
Dal 1820, anno in cui la diocesi brugnatese viene unita alla diocesi di Luni-Sarzana, l’antico palazzo vescovile, proprio in quell’anno restaurato dal cardinale Giuseppe Spina, diventa dimora per breve visite e quindi abitato saltuariamente. Il palazzo ospita oggi il locale museo diocesano diviso nella sezione diocesana ed archeologica.
Il museo ospita una selezione di pregevoli manifatture; di particolare interesse è la sala che ospita una selezione di argenti provenienti dalla cattedrale adiacente.
I criteri espositivi rispondono alla duplice funzione che anticamente aveva posseduto il palazzo: l’essere, allo stesso tempo, dimora privata e palazzo di rappresentanza.
Salone di rappresentanza e sale attigue:
Simboli del potere pastorale ed oggetti legati alla liturgia e alla celebrazione della Messa. In questa sala, è da ammirare il soffitto ligneo a trompe l’oeil , risalente ai lavori di rinnovamento apportati, nel 1767, dal Vescovo Francesco Maria Gentile. L’apparato decorativo ha una struttura a grandi specchiature con motivi fitoformi, tipiche del barocchetto genovese. Al centro del soffitto è situato lo stemma della famiglia Gentile, con gli attributi vescovili.
Tra gli oggetti custoditi in queste sale, troneggia una pala d’altare opera del genovese Cesare Corte (fine XVI – XVII): si tratta della Madonna del Rosario e i Santi Pietro e Domenico.
Studio, camera da letto, saletta:
Libri liturgici, documenti provenienti dall’archivio diocesano. Il mobilio della stanza è, in gran parte, quello originario.
Nello studio si trova un pregadio di stile rococò: al centro sopra la mensa si trova un dipinto raffigurante l’Addolorata; ai lati, dopo una lunga fase di restauro, sono venuti alla luce due affreschi, uno dei quali raffigura la parabola della Samaritana al pozzo. Ancora in questa sala, sulla parete Ovest, si trova la Lactatio di San Bernardo del pittore Gian Lorenzo Bertolotto (1646 – 1721), invece sulla parete Est si trova L’Orazione di Gesù nell’orto, del pittore piemontese Giuseppe Vermiglio. Nella parete Sud, si trova l’affresco di un pittore anonimo ligure della fine del XV secolo: si tratta della Madonna col Bambino ed i SS. Pietro e Lorenzo.
Al pianterreno del museo, si trova la sezione archeologica. Qui è possibile vedere i basamenti originari del palazzo vescovile che ospita il museo. In questa parte del palazzo sono stati rinvenuti numerosi reperti ceramici, non ancora esposti al pubblico perché ancora in fase di studio e di catalogazione.

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  • Tradizione

Festa du Paise

Bardineto, Liguria

La Festa veramente Bardinetese per eccellenza si celebra il 16 Agosto, giorno di San Rocco, Patrono della Comunità di Bardineto. Correva all’incirca l’anno 1650, allorché i Bardinetesi avevano già preparato i Lazzaretti a San Nicolò poiché la peste era arrivata a Calizzano (come testimonia anche un antico quadro custodito nel santuario di Nostra Signora delle Grazie). Ma a quanto pare, non si verificò alcun caso di peste nel paese. A ciò si aggiunga il fatto che Bardineto, volesse dare al paese anche un Santo laico”, considerato che la Chiesa aveva già San Giovanni Battista come Protettore. La scelta quindi, cadde su San Rocco, che divenne patrono dell’intera Comunità Bardinetese. Ma chi era San Rocco? Sulla figura del Santo non si hanno notizie biografiche degne di fede storica. I dati più attendibili lo vedono nascere a Montpellier e morire ad Angera sul Lago Maggiore, nei XIV secolo. Orfano in giovane età, dopo aver distribuito in elemosine il patrimonio paterno, lascia Montpellier per un pellegrinaggio a Roma. Giunto a Cesena, Rocco si pone al servizio degli appestati che, primi, ne sperimentano la taumaturgica potenza. Da Cesena riprende la via di Roma dove guarisce un cardinale che lo presenta al Papa. A Roma si trattiene tre anni dedicandosi ai poveri ed agli appestati, quindi va a Rimini, Novara, Piacenza dove si ammala e vive per parecchio tempo in un luogo silvestre: guarito riprende la via della patria, ma ad Angera, sospettato di spionaggio, viene arrestato e muore in prigione dopo cinque anni di reclusione.
Riconosciutane l’identità dopo la morte, viene sepolto con tutti gli onori. Secondo altri, avrebbe perduto la vita a causa della peste e perciò dal XV secolo è invocato assieme a San Sebastiano come taumaturgo e protettore contro questo morbo. Le immagini di San Rocco sono rare prima del 1485 quando secondo una tradizione, i Veneziani ne trasportarono le Reliquie dall’ Oriente. Da allora il culto de santo ebbe grande impulso e dappertutto sorsero Chiese, Confraternite ed Oratori in suo onore specie nelle campagne. E rappresentato giovane pellegrino, con barba, in atto di additare con la mano destra un bubbone ed una piaga sulla gamba. È spesso accompagnato da un cane che ha un pane in bocca, a ricordo della leggenda secondo la quale il nobile Gottardo mandava, tramite il proprio cane, il cibo al Santo, malato presso Piacenza. Le Reliquie si conservano tuttora a Venezia.
Il giorno di San Rocco a Bardineto, si distingue in due parti: dapprima c’è la Festa Sacra con la Processione ed i Misteri portati a braccia dalla Confraternita Bardinetese dedicata ai SS. Maria Annunziata e Carlo Borromeo e da altre numerose confraternite partecipanti.
Dopo la Festa Sacra, esiste il festeggiamento “profano’’, che inizia verso sera per protrarsi fino alla mattina. E’ tutto il paese che si stringe attorno al suo cuore, nella piccola Piazza Soprana. Nato nel 1975 come intrattenimento del “Borgo’’, dove si offrivano i piatti tipici Bardinetesi e si finiva col ballo, nel corso di questi venti anni, si è arricchito di scenette, balletti, improvvisazioni che mutano ogni anno. Ed Ogni volta vengono allestite la ‘Greppia’’ e la “Cantina’’, ogni volta le patate vengono usate a quintali per la Polenta Bianca (piatto “Nazionale Bardinetese’’), ogni volta nell’aria si respira il profumo delle Frittelle e della Torta Pasqualina, preparate in tutte le case del Borgo, case unite come le dita di un pugno chiuso. Ed ogni volta si assiste alla scenetta in dialetto che fa un po’ da specchio a quello che avviene durante l’anno in paese, celebrando con affetto meriti e vizi locali.

Anno dopo anno, sono centinaia coloro che si prestano in mille modi per il buon funzionamento della serata. Una cosa è certa: nella Piazzetta Soprana diventata per l’occasione palcoscenico e balera, a una Risata ed un Ballo li lasciano tutti, anziani e bimbi, uomini e donne, allegri e tristi. E’ l’unica sera che gli abitanti del circondario si rassegnano volentieri a non chiudere occhio per tutta la notte, qualsiasi tipo di lavoro abbiano da svolgere la mattina dopo.

Sono numerosi i Bardinetesi che trasferitisi in Riviera o altrove, la sera dopo Ferragosto, accorrono tra gli archi e i portici che li hanno visti crescere. E tanti giovani che a Bardineto non ci sono nemmeno nati, ci vengono lo stesso, rispondendo ad una tradizione trasmessa loro dai parenti. E tanti sono anche i “Foresti’’, coloro che a Bardineto trascorrono l‘Estate, che vengono coinvolti in questa Festa sempre uguale e tuttavia sempre diversa. E quelli che vengono per la prima volta si meravigliano di un paese in cui nessuno si chiama per cognome, perchè tutti si conoscono da sempre.

A Bardineto, punto piccolissimo sull’Atlante, nel bene e nel male, esistono ancora il calore umano e la capacità di stendere la mano agli altri; e magari può servire anche la sera di San Rocco. È una sorta di fuga dal tempo: certo non elimina la problematicità della vita, all’indomani ognuno ritorna alle proprie difficoltà, agli ostacoli quotidiani; ma almeno per una notte all’anno, forse solo per poche ore, è tanto bello ascoltare solo la voce del proprio paese, i ricordi, le risate liberatorie e riconoscere le radici che si annidano nei pensieri e nel cuore. Ha scritto Cesare Pavese:
“….Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.” Ed è vero.

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  • Festival

Il Festival Paganiniano

Carro, Liguria

I nomi sono numina, divinità, visioni e, in senso lato, possono essere considerati anche destini. Destini che possono procedere a passo lento o a passo andante su strade parallele e che mai riusciranno ad incontrarsi e altri invece che riescono ad incrociarsi e a diventare una storia.
La storia del Festival paganiniano di Carro è quella di una rete di amicizie che nel tempo, con passione e generosità, si è trasformata anche in un progetto, riuscendo a collegare, con fili invisibili, luoghi e persone, uniti dall’amore per la Val di Vara, per la sua gente, per la cultura e per la musica.
Il Festival paganiniano di Carro è un nome, e dunque un destino, che continua a passare di bocca in bocca, di paese in paese, di città in città. Ed è un nome che richiama a sua volta altri nomi: nomi di un luogo antico come Carro e di un’icona della cultura , come quello di Niccolò Paganini, i cui destini si sono incrociati da quando gli antenati del più famoso violinista di ogni tempo, secoli fa, scelsero di vivere in questo paesino arroccato nell’Appennino Ligure. Chissà da dove arrivavano. Il cognome Paganini sembra avere almeno tre ceppi, di cui uno nella Liguria orientale, e un possibile antenato fa capolino dal lontano XIII secolo: Paganino da Sarzana, personaggio singolare e ai più sconosciuto, poeta e rimatore di grande perfezione nel Vulgare, influenzato dalla lirica provenzale.
Se molti dei suoi scritti furono conservati dal celebre fiorentino Francesco Redi, a far sì che non venisse dimenticato è stato G.B. Spotorno ricordandolo nella Storia Letteraria della Liguria, pubblicata in 5 volumi a Genova nel 1858.
Qui, però, interessa ricordare che quando due o più parole si incontrano e unendosi ne formano un’altra – gli enigmisti insegnano – diventano una sciarada, diventano un’altra cosa. Diventano, come è successo con il Festival Paganiniano di Carro, una bellissima avventura fatta di incontri, emozioni, suggestioni, scorci, paesaggi, luci, suoni, sapori che molti non conoscevano e che altri credevano scomparsi. Con il progetto del Festival Paganiniano di Carro ad unirsi sono state non solo delle parole, ma visioni e volontà che hanno saputo creare un evento a cui tutti gli Amici del Festival hanno dato e continuano a dare un aiuto prezioso.
Il Festival è nato, idealmente, in una bellissima giornata dei primi di dicembre del 2001 quando a Carro, per la prima volta, vi fu la riunione delle Proloco liguri, fortemente voluta da Carmen Breschi, in quegli anni presidente della Pro Loco di Carro, di cui Teresa Paganini De Lucchi era l’insostituibile vicepresidente. Fu in quell’occasione, come spesso capita quando persone diverse si incontrano e si scambiano impressioni, che si delineò l’idea di riproporre per l’estate successiva qualche concerto dedicato a Niccolò Paganini come già in anni passati era stato fatto, in modo episodico e non continuativo.
Ad aiutare tutti noi che facevamo parte del direttivo della Pro Loco di allora a realizzare questo progetto fu, insieme alla Società dei Concerti di La Spezia, anche l’associazione Amici di Paganini di Genova che, nel febbraio del 2002, accettò l’invito di venire a passare una giornata a Carro. Il presidente Enrico Volpato e l’allora vice presidente Enrico Belloni concordarono con Gabriella Arbasetti, a quei tempi assessore per la Cultura del Comune di Carro, di pensare, nell’ambito di quello che cominciava a prendere forma di “Festival Paganiniano di Carro”, sotto l’egida della Pro Loco, un concerto che si sarebbe svolto nel carrugio Paganini.
La sera del 22 luglio in un’atmosfera sospesa e con l’emozione che sfiorava l’incredulità, molti di noi assistettero all’inaugurazione di quell’evento, ancor minuscolo, ma già grandioso.
L’Associazione Amici di Paganini di Genova aprì la manifestazione con Neli Mocinova al violino e Christian Giraudo alla chitarra, che suonarono musiche di Niccolò Paganini, Astor Piazzola, Jacques Ibert, Manuel De Falla.
La Società dei Concerti di La Spezia, nelle serate del 7 e 9 agosto, proseguì con i violinisti Valerio Giannarelli e Cristiano Rossi, il chitarrista Stefano Bartolommeoni, il pianista Marco Vincenzi e musiche di Paganini, Listz, Beethoven; grande successo riscosse poi, la sera dell’11, “Via Gattamora!” – luogo natale di Niccolò – lo spettacolo teatralmusicale di Luigi Maio, vulcanico autore e attore di una rilettura in chiave satirica della vita di Paganini. In fine, il Centro Lirico Concertistico Alta Valle del Vara concluse quel primo ciclo di spettacoli con un concerto pianistico eseguito dal Maestro Fernando Mainardi.
L’anno successivo, nel 2003, grazie ancora una volta all’interessamento e all’aiuto di Piergino Scardigli, allora presidente della Camera di Commercio di La Spezia, il progetto ha potuto continuare. Da quel momento ad organizzare i concerti fu unicamente la Società dei Concerti di La Spezia, il cui vicepresidente vicario Ernesto Di Marino ha sempre creduto fortemente nel progetto di un Festival paganiniano. I tre spettacoli si svolsero sempre nel carrugio Paganini, molto suggestivo e autentico, ma logisticamente difficile da gestire. Nell’estate 2004, con l’appoggio del sindaco di allora, Gino De Mattei, che riuscì persino a convincere il parroco Don Otello a non far suonare le campane durante gli spettacoli, i tre concerti vennero spostati nella bellissima piazza del paese dove, ogni anno, continuano a svolgersi.
Dal 2005 il Festival Paganiniano di Carro, oltre a trovare nella società Isagro, sponsor principale, un amico in più, è diventato itinerante, portando i concerti in altri paesi della Val di Vara: Beverino, Bolano, Brugnato, Calice al Cornoviglio, Maissana, Mattarana- Carrodano, Sesta Godano, Riccò del Golfo, Suvero- Rocchetta Vara, Porciorasco-Varese Ligure; al mare a Bonassola e in val di Magra ad Arcola, Nicola di Ortonovo, a Ponzano al Monte, a Santo Stefano Magra, ma anche a Levanto e a Vernazza. In questi “luoghi nuovi” il Festival ha trovato altri amici, molti dei quali oggi fanno parte dell’Associazione Amici del Festival Paganiniano di Carro, creata nel 2007 ed aperta, come declina lo Statuto, a tutti coloro che desiderino aiutare a promuovere il Festival e a valorizzare il territorio. Dalla prima edizione del Festival molte cose sono cambiate in Val di Vara. Si è rafforzata una cultura dell’accoglienza, sono nate nuove strutture e nuove economie.
Si sono restaurate vecchie case che rischiavano di essere abbandonate e andare distrutte. È ritornato ad essere prodotto e venduto anche un antico vino. Sono stati ripuliti vecchi sentieri e molti dei suoi paesini sono diventati una meta per chi desidera conoscere e gustare il sapore di rapporti sinceri. Dire che questo sia stato un risultato del Festival forse può sembrare azzardato. Sicuramente il Festival vi ha contribuito, a riprova di come la cultura – se mai ancora fosse necessaria una conferma – sia uno strumento straordinario non solo per creare sviluppo, ma per favorire nuovi incontri e attimi di felicità. Lo prova il successo di pubblico non solo del Festival, ma di tutte le manifestazioni culturali che il territorio propone in luoghi diversi. Per concludere non resta che affidarci, in vista delle prossime edizioni del Festival e delle future iniziative dell’Associazione, ai motti latini che meglio di qualsiasi altra spiegazione riescono ad esprimere quello che è stato, è e sarà il Festival Paganiniano di Carro: audacia nos ducat, comite fortuna. Che l’audacia ci conduca, se la fortuna vorrà esserci compagna.

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  • Museo

Museo dell’Arte Vetraria Altarese

Altare, Liguria

Secondo una radicata e costante tradizione orale, l’arte del vetro fu anticamente introdotta ad Altare da una comunità benedettina che, rilevate qui le condizioni naturali idonee, si racconta avrebbe richiamato dal nord della Francia ( Normandia o Bretagna), alcuni esperti artigiani. Un confronto con i dati archivistici in seguito acquisiti non infirma quanto riferito.
Sull’isola di Bergeggi (insula Liguriae), presso la chiesetta voluta dalla devozione popolare sul sepolcro di Sant’Eugenio, il Vescovo di Savona Bernardo, nel 992, fece costruire un cenobio affidandone la cura a monaci benedettini chiamati dall’abbazia di Saint Honorat (isole provenzali di Lérins). L’atto relativo è tramandato dal cronista savonese G.V.Verzellino (1562-1638) “non per esteso – rileva Valeria Polonio – ma in abbondante regesto, con tali particolari da garantirne l’autenticità”.
Tra il 1124 e il 1134 le terre di Altare – allora pertinenti alla diocesi di Alba – furono donate dal vescovo Rimbaldo ai cenobiti lerinesi di Sant’Eugenio e una bolla di Papa Innocenzo II in data 20 febbraio 1141 ne confermò loro il possesso. L’insediamento benedettino ad Altare va pertanto inquadrato storicamente in tale contesto.
È opportuno qui ricordare come dall’Alto Medioevo sia le fonti scritte che i dati archeologici testimonino in Occidente di stretti rapporti intercorsi tra i centri di produzione vetraria e i monasteri, dove si inizia a far uso di vetro per le finestre abbaziali. Esigendo poi la chiesa una particolare oggettistica di culto (calici, urne, reliquiari) anticamente le arti plastiche furono esercitate quasi esclusivamente nei cenobi e, comunque, soprattutto a beneficio del clero, cosicché – sottolineano molti autori – le officine vetrarie vennero spesso a gravitare attorno ad insediamenti monastici.
Il Museo dell’Arte Vetraria Altarese, nato all’interno della S.A.V. quale museo d’azienda, oggi è ospitato nelle sale di Villa Rosa ed offre ai suoi visitatori una rassegna di opere che vanno dal 1650 ai giorni nostri,oltre ad attrezzi e stampi per la lavorazione artigianale.
Villa Rosa, in perfetto stile liberty, venne fatta costruire tra il 1905 e il 1906 da Monsignor Bertolotti per la sorella Rosalia, da cui la denominazione.
Il committente affidò la progettazione all’Ingegnere Nicolò Campora, uno dei progettisti più attivi ed aperti alle nuove tendenze dell’architettura internazionale.
La villa fa parte di una serie di edifici liberty che si diffusero nel paese all’inizio del 1900, in gran parte ancora esistenti. Acquistata dallo Stato con diritto di prelazione nel 1992, dopo i restauri la villa è stata riportata all’antico splendore e adibita a sede del Museo dell’Arte Vetraria Altarese.

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  • Museo

Museo Regionale Etnografico e della Stregoneria

Triora, Liguria

Nato dall’entusiasmo dei giovani dei Campo Eco organizzati dal Comune di Genova nel 1982-83 e dall’immediata risposta entusiastica dei trioresi, il Museo di Triora Etnografico e della Stregoneria raccoglie oggi moltissimi oggetti antichi – ma a volte ancora in uso in borgate remote del territorio comunale, come Borniga o Goina – che testimoniano una cultura contadina e pastorale particolarmente viva e palpitante.

Lungi dal voler essere solo una sterile esposizione di oggetti, il Museo di Triora invita ancora, come nelle parole del manifesto dei ragazzi del Campo Eco di tanti anni fa, a visitare il paese antico a esplorare le sue incantevoli frazioni, dove in qualche caso si potrà riscontare l’uso di attrezzi notati in queste sale.
Sarà possibile così, a contatto con una natura pressoché incontaminata, intravedere e respirare momenti di un’”altra vita”, forse in qualche modo più autentica.
L’Associazione Turistica Pro Triora, che collaborò sempre con i ragazzi genovesi, intessendo rapporti di amicizia che sopravvivono tuttora, raccolse idealmente il testimone e in stretta collaborazione con il Comune di Triora, si occupò della gestione e della custodia del museo.
Con il nuovo interesse suscitato nel 1987 dal Convegno Nazionale promosso dal Comune di Triora e dall’Università di Genova in occasione del quarto centenario dei processi per stregoneria, vennero allestite nuove sale nei sotterranei dell’edificio, dove un tempo erano le carceri.
Costanti migliorie e ammodernamenti vengono apportati tutti gli anni, grazie soprattutto all’entusiasmo di Silvano Oddo, già assessore comunale, attivissimo consigliere della Pro Triora, che ha assunto la carica di direttore della struttura.

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  • Parco Tematico / Divertimento

Parco Avventura Airole

Airole, Liguria

Il parco avventura di Airole, è un parco divertimenti, immerso nella natura. È costituito da 3 percorsi: VERDE: il percorso più facile (2 mt altezza) BLU: percorso medio facile (4/6mt altezza) ROSSO: il più difficile (5/9 mt altezza).

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  • Patrimonio culturale Religioso

Concattedrale, Palazzo Vescovile e Museo Diocesano

Brugnato, Liguria

La chiesa cattedrale risale al XII sec. e viene edificata, verosimilmente, nel momento in cui Brugnato diventa Diocesi suffraganea dell’Arcidiocesi di Genova. L’edificio, presenta uno schema planimetrico a due navate divise da pilastri colonniformi e sorge sui resti di due chiese preesistenti, la più antica delle quali, posta sotto l’attuale navata maggiore, risale ad epoca bizantina (VI secolo) .
Al centro del catino absidale, si possono ammirare tre volti in pietra sbozzata (maschere apotropaiche), con funzione rappresentativa dei tre santi Pietro, Lorenzo e Colombano, contitolari della cattedrale.
Sulla terza colonna, volto verso la navata maggiore, è un affresco, risalente al XV sec. che raffigura Sant’Antonio Abate.
Il Santo, la cui figura è inquadrata da una fascia decorativa con motivi vegetali e rosette, è riconoscibile dagli attributi che lo identificano: il tradizionale mantello, il bastone da eremita e il tintinnabulum.
Sulla parete della navata minore i recenti restauri hanno riportato alla luce un altro pregevole affresco cinquecentesco, raffigurante la presentazione di Gesù al tempio.
Vi si riconoscono il Sacerdote, al centro, con Maria e Giuseppe che offrono il Bambino Gesù su di un vassoio, insieme a due colombi. A destra sono riconoscibili San Francesco e San Lorenzo.
Di rilevante importanza è il complesso archeologico, rinvenuto già negli anni ’50 ed oggi visitabile e lasciato a vista, tramite cristalli posizionati sul pavimento moderno.
Sotto la navata maggiore sono visibili i resti di una chiesa ad aula unica di cui restano i muri perimetrali, la pavimentazione in cotto, un fonte battesimale.
Lo scavo archeologico, condotto dalla Soprintendenza Archeologica della Liguria nel 1994, ha permesso di individuare diverse fasi di ampliamento dell’impianto originario che mettono in relazione questa chiesa col primo insediamento benedettino. Sotto la navata minore sono visibili i muri perimetrali di una piccola chiesa ad aula unica cronologicamente più tarda, il cui momento di fondazione è incerto.
Il palazzo fu l’antica dimora del vescovo della diocesi di Brugnato già dal 1133; la presenza di tale edificio, eretto sulle fondazioni della più antica abbazia di San Colombano, è testimoniata in documenti e registri vescovili databili tra il 1277 e il 1321.
Nella sua storia la struttura fu più volte rimaneggiata da restauri e ampliamenti, il più cospicuo dei quali si svolse durante il vescovato di Giovanni Battista Paggi tra il 1655 e il 1663. Successive riparazioni, con innalzamento del soffitto e rifacimento completo delle coperture, furono eseguite nel XVIII secolo dal vescovo cardinal Benedetto Lomellini; le decorazioni interne del soffitto furono realizzate durante la reggenza di monsignor Francesco Maria Gentile.
Dal 1820, anno in cui la diocesi brugnatese viene unita alla diocesi di Luni-Sarzana, l’antico palazzo vescovile, proprio in quell’anno restaurato dal cardinale Giuseppe Spina, diventa dimora per breve visite e quindi abitato saltuariamente. Il palazzo ospita oggi il locale museo diocesano diviso nella sezione diocesana ed archeologica.
Il museo ospita una selezione di pregevoli manifatture; di particolare interesse è la sala che ospita una selezione di argenti provenienti dalla cattedrale adiacente.
I criteri espositivi rispondono alla duplice funzione che anticamente aveva posseduto il palazzo: l’essere, allo stesso tempo, dimora privata e palazzo di rappresentanza.
Salone di rappresentanza e sale attigue:
Simboli del potere pastorale ed oggetti legati alla liturgia e alla celebrazione della Messa. In questa sala, è da ammirare il soffitto ligneo a trompe l’oeil , risalente ai lavori di rinnovamento apportati, nel 1767, dal Vescovo Francesco Maria Gentile. L’apparato decorativo ha una struttura a grandi specchiature con motivi fitoformi, tipiche del barocchetto genovese. Al centro del soffitto è situato lo stemma della famiglia Gentile, con gli attributi vescovili.
Tra gli oggetti custoditi in queste sale, troneggia una pala d’altare opera del genovese Cesare Corte (fine XVI – XVII): si tratta della Madonna del Rosario e i Santi Pietro e Domenico.
Studio, camera da letto, saletta:
Libri liturgici, documenti provenienti dall’archivio diocesano. Il mobilio della stanza è, in gran parte, quello originario.
Nello studio si trova un pregadio di stile rococò: al centro sopra la mensa si trova un dipinto raffigurante l’Addolorata; ai lati, dopo una lunga fase di restauro, sono venuti alla luce due affreschi, uno dei quali raffigura la parabola della Samaritana al pozzo. Ancora in questa sala, sulla parete Ovest, si trova la Lactatio di San Bernardo del pittore Gian Lorenzo Bertolotto (1646 – 1721), invece sulla parete Est si trova L’Orazione di Gesù nell’orto, del pittore piemontese Giuseppe Vermiglio. Nella parete Sud, si trova l’affresco di un pittore anonimo ligure della fine del XV secolo: si tratta della Madonna col Bambino ed i SS. Pietro e Lorenzo.
Al pianterreno del museo, si trova la sezione archeologica. Qui è possibile vedere i basamenti originari del palazzo vescovile che ospita il museo. In questa parte del palazzo sono stati rinvenuti numerosi reperti ceramici, non ancora esposti al pubblico perché ancora in fase di studio e di catalogazione.

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  • Tradizione

Festa du Paise

Bardineto, Liguria

La Festa veramente Bardinetese per eccellenza si celebra il 16 Agosto, giorno di San Rocco, Patrono della Comunità di Bardineto. Correva all’incirca l’anno 1650, allorché i Bardinetesi avevano già preparato i Lazzaretti a San Nicolò poiché la peste era arrivata a Calizzano (come testimonia anche un antico quadro custodito nel santuario di Nostra Signora delle Grazie). Ma a quanto pare, non si verificò alcun caso di peste nel paese. A ciò si aggiunga il fatto che Bardineto, volesse dare al paese anche un Santo laico”, considerato che la Chiesa aveva già San Giovanni Battista come Protettore. La scelta quindi, cadde su San Rocco, che divenne patrono dell’intera Comunità Bardinetese. Ma chi era San Rocco? Sulla figura del Santo non si hanno notizie biografiche degne di fede storica. I dati più attendibili lo vedono nascere a Montpellier e morire ad Angera sul Lago Maggiore, nei XIV secolo. Orfano in giovane età, dopo aver distribuito in elemosine il patrimonio paterno, lascia Montpellier per un pellegrinaggio a Roma. Giunto a Cesena, Rocco si pone al servizio degli appestati che, primi, ne sperimentano la taumaturgica potenza. Da Cesena riprende la via di Roma dove guarisce un cardinale che lo presenta al Papa. A Roma si trattiene tre anni dedicandosi ai poveri ed agli appestati, quindi va a Rimini, Novara, Piacenza dove si ammala e vive per parecchio tempo in un luogo silvestre: guarito riprende la via della patria, ma ad Angera, sospettato di spionaggio, viene arrestato e muore in prigione dopo cinque anni di reclusione.
Riconosciutane l’identità dopo la morte, viene sepolto con tutti gli onori. Secondo altri, avrebbe perduto la vita a causa della peste e perciò dal XV secolo è invocato assieme a San Sebastiano come taumaturgo e protettore contro questo morbo. Le immagini di San Rocco sono rare prima del 1485 quando secondo una tradizione, i Veneziani ne trasportarono le Reliquie dall’ Oriente. Da allora il culto de santo ebbe grande impulso e dappertutto sorsero Chiese, Confraternite ed Oratori in suo onore specie nelle campagne. E rappresentato giovane pellegrino, con barba, in atto di additare con la mano destra un bubbone ed una piaga sulla gamba. È spesso accompagnato da un cane che ha un pane in bocca, a ricordo della leggenda secondo la quale il nobile Gottardo mandava, tramite il proprio cane, il cibo al Santo, malato presso Piacenza. Le Reliquie si conservano tuttora a Venezia.
Il giorno di San Rocco a Bardineto, si distingue in due parti: dapprima c’è la Festa Sacra con la Processione ed i Misteri portati a braccia dalla Confraternita Bardinetese dedicata ai SS. Maria Annunziata e Carlo Borromeo e da altre numerose confraternite partecipanti.
Dopo la Festa Sacra, esiste il festeggiamento “profano’’, che inizia verso sera per protrarsi fino alla mattina. E’ tutto il paese che si stringe attorno al suo cuore, nella piccola Piazza Soprana. Nato nel 1975 come intrattenimento del “Borgo’’, dove si offrivano i piatti tipici Bardinetesi e si finiva col ballo, nel corso di questi venti anni, si è arricchito di scenette, balletti, improvvisazioni che mutano ogni anno. Ed Ogni volta vengono allestite la ‘Greppia’’ e la “Cantina’’, ogni volta le patate vengono usate a quintali per la Polenta Bianca (piatto “Nazionale Bardinetese’’), ogni volta nell’aria si respira il profumo delle Frittelle e della Torta Pasqualina, preparate in tutte le case del Borgo, case unite come le dita di un pugno chiuso. Ed ogni volta si assiste alla scenetta in dialetto che fa un po’ da specchio a quello che avviene durante l’anno in paese, celebrando con affetto meriti e vizi locali.

Anno dopo anno, sono centinaia coloro che si prestano in mille modi per il buon funzionamento della serata. Una cosa è certa: nella Piazzetta Soprana diventata per l’occasione palcoscenico e balera, a una Risata ed un Ballo li lasciano tutti, anziani e bimbi, uomini e donne, allegri e tristi. E’ l’unica sera che gli abitanti del circondario si rassegnano volentieri a non chiudere occhio per tutta la notte, qualsiasi tipo di lavoro abbiano da svolgere la mattina dopo.

Sono numerosi i Bardinetesi che trasferitisi in Riviera o altrove, la sera dopo Ferragosto, accorrono tra gli archi e i portici che li hanno visti crescere. E tanti giovani che a Bardineto non ci sono nemmeno nati, ci vengono lo stesso, rispondendo ad una tradizione trasmessa loro dai parenti. E tanti sono anche i “Foresti’’, coloro che a Bardineto trascorrono l‘Estate, che vengono coinvolti in questa Festa sempre uguale e tuttavia sempre diversa. E quelli che vengono per la prima volta si meravigliano di un paese in cui nessuno si chiama per cognome, perchè tutti si conoscono da sempre.

A Bardineto, punto piccolissimo sull’Atlante, nel bene e nel male, esistono ancora il calore umano e la capacità di stendere la mano agli altri; e magari può servire anche la sera di San Rocco. È una sorta di fuga dal tempo: certo non elimina la problematicità della vita, all’indomani ognuno ritorna alle proprie difficoltà, agli ostacoli quotidiani; ma almeno per una notte all’anno, forse solo per poche ore, è tanto bello ascoltare solo la voce del proprio paese, i ricordi, le risate liberatorie e riconoscere le radici che si annidano nei pensieri e nel cuore. Ha scritto Cesare Pavese:
“….Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.” Ed è vero.

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  • Festival

Il Festival Paganiniano

Carro, Liguria

I nomi sono numina, divinità, visioni e, in senso lato, possono essere considerati anche destini. Destini che possono procedere a passo lento o a passo andante su strade parallele e che mai riusciranno ad incontrarsi e altri invece che riescono ad incrociarsi e a diventare una storia.
La storia del Festival paganiniano di Carro è quella di una rete di amicizie che nel tempo, con passione e generosità, si è trasformata anche in un progetto, riuscendo a collegare, con fili invisibili, luoghi e persone, uniti dall’amore per la Val di Vara, per la sua gente, per la cultura e per la musica.
Il Festival paganiniano di Carro è un nome, e dunque un destino, che continua a passare di bocca in bocca, di paese in paese, di città in città. Ed è un nome che richiama a sua volta altri nomi: nomi di un luogo antico come Carro e di un’icona della cultura , come quello di Niccolò Paganini, i cui destini si sono incrociati da quando gli antenati del più famoso violinista di ogni tempo, secoli fa, scelsero di vivere in questo paesino arroccato nell’Appennino Ligure. Chissà da dove arrivavano. Il cognome Paganini sembra avere almeno tre ceppi, di cui uno nella Liguria orientale, e un possibile antenato fa capolino dal lontano XIII secolo: Paganino da Sarzana, personaggio singolare e ai più sconosciuto, poeta e rimatore di grande perfezione nel Vulgare, influenzato dalla lirica provenzale.
Se molti dei suoi scritti furono conservati dal celebre fiorentino Francesco Redi, a far sì che non venisse dimenticato è stato G.B. Spotorno ricordandolo nella Storia Letteraria della Liguria, pubblicata in 5 volumi a Genova nel 1858.
Qui, però, interessa ricordare che quando due o più parole si incontrano e unendosi ne formano un’altra – gli enigmisti insegnano – diventano una sciarada, diventano un’altra cosa. Diventano, come è successo con il Festival Paganiniano di Carro, una bellissima avventura fatta di incontri, emozioni, suggestioni, scorci, paesaggi, luci, suoni, sapori che molti non conoscevano e che altri credevano scomparsi. Con il progetto del Festival Paganiniano di Carro ad unirsi sono state non solo delle parole, ma visioni e volontà che hanno saputo creare un evento a cui tutti gli Amici del Festival hanno dato e continuano a dare un aiuto prezioso.
Il Festival è nato, idealmente, in una bellissima giornata dei primi di dicembre del 2001 quando a Carro, per la prima volta, vi fu la riunione delle Proloco liguri, fortemente voluta da Carmen Breschi, in quegli anni presidente della Pro Loco di Carro, di cui Teresa Paganini De Lucchi era l’insostituibile vicepresidente. Fu in quell’occasione, come spesso capita quando persone diverse si incontrano e si scambiano impressioni, che si delineò l’idea di riproporre per l’estate successiva qualche concerto dedicato a Niccolò Paganini come già in anni passati era stato fatto, in modo episodico e non continuativo.
Ad aiutare tutti noi che facevamo parte del direttivo della Pro Loco di allora a realizzare questo progetto fu, insieme alla Società dei Concerti di La Spezia, anche l’associazione Amici di Paganini di Genova che, nel febbraio del 2002, accettò l’invito di venire a passare una giornata a Carro. Il presidente Enrico Volpato e l’allora vice presidente Enrico Belloni concordarono con Gabriella Arbasetti, a quei tempi assessore per la Cultura del Comune di Carro, di pensare, nell’ambito di quello che cominciava a prendere forma di “Festival Paganiniano di Carro”, sotto l’egida della Pro Loco, un concerto che si sarebbe svolto nel carrugio Paganini.
La sera del 22 luglio in un’atmosfera sospesa e con l’emozione che sfiorava l’incredulità, molti di noi assistettero all’inaugurazione di quell’evento, ancor minuscolo, ma già grandioso.
L’Associazione Amici di Paganini di Genova aprì la manifestazione con Neli Mocinova al violino e Christian Giraudo alla chitarra, che suonarono musiche di Niccolò Paganini, Astor Piazzola, Jacques Ibert, Manuel De Falla.
La Società dei Concerti di La Spezia, nelle serate del 7 e 9 agosto, proseguì con i violinisti Valerio Giannarelli e Cristiano Rossi, il chitarrista Stefano Bartolommeoni, il pianista Marco Vincenzi e musiche di Paganini, Listz, Beethoven; grande successo riscosse poi, la sera dell’11, “Via Gattamora!” – luogo natale di Niccolò – lo spettacolo teatralmusicale di Luigi Maio, vulcanico autore e attore di una rilettura in chiave satirica della vita di Paganini. In fine, il Centro Lirico Concertistico Alta Valle del Vara concluse quel primo ciclo di spettacoli con un concerto pianistico eseguito dal Maestro Fernando Mainardi.
L’anno successivo, nel 2003, grazie ancora una volta all’interessamento e all’aiuto di Piergino Scardigli, allora presidente della Camera di Commercio di La Spezia, il progetto ha potuto continuare. Da quel momento ad organizzare i concerti fu unicamente la Società dei Concerti di La Spezia, il cui vicepresidente vicario Ernesto Di Marino ha sempre creduto fortemente nel progetto di un Festival paganiniano. I tre spettacoli si svolsero sempre nel carrugio Paganini, molto suggestivo e autentico, ma logisticamente difficile da gestire. Nell’estate 2004, con l’appoggio del sindaco di allora, Gino De Mattei, che riuscì persino a convincere il parroco Don Otello a non far suonare le campane durante gli spettacoli, i tre concerti vennero spostati nella bellissima piazza del paese dove, ogni anno, continuano a svolgersi.
Dal 2005 il Festival Paganiniano di Carro, oltre a trovare nella società Isagro, sponsor principale, un amico in più, è diventato itinerante, portando i concerti in altri paesi della Val di Vara: Beverino, Bolano, Brugnato, Calice al Cornoviglio, Maissana, Mattarana- Carrodano, Sesta Godano, Riccò del Golfo, Suvero- Rocchetta Vara, Porciorasco-Varese Ligure; al mare a Bonassola e in val di Magra ad Arcola, Nicola di Ortonovo, a Ponzano al Monte, a Santo Stefano Magra, ma anche a Levanto e a Vernazza. In questi “luoghi nuovi” il Festival ha trovato altri amici, molti dei quali oggi fanno parte dell’Associazione Amici del Festival Paganiniano di Carro, creata nel 2007 ed aperta, come declina lo Statuto, a tutti coloro che desiderino aiutare a promuovere il Festival e a valorizzare il territorio. Dalla prima edizione del Festival molte cose sono cambiate in Val di Vara. Si è rafforzata una cultura dell’accoglienza, sono nate nuove strutture e nuove economie.
Si sono restaurate vecchie case che rischiavano di essere abbandonate e andare distrutte. È ritornato ad essere prodotto e venduto anche un antico vino. Sono stati ripuliti vecchi sentieri e molti dei suoi paesini sono diventati una meta per chi desidera conoscere e gustare il sapore di rapporti sinceri. Dire che questo sia stato un risultato del Festival forse può sembrare azzardato. Sicuramente il Festival vi ha contribuito, a riprova di come la cultura – se mai ancora fosse necessaria una conferma – sia uno strumento straordinario non solo per creare sviluppo, ma per favorire nuovi incontri e attimi di felicità. Lo prova il successo di pubblico non solo del Festival, ma di tutte le manifestazioni culturali che il territorio propone in luoghi diversi. Per concludere non resta che affidarci, in vista delle prossime edizioni del Festival e delle future iniziative dell’Associazione, ai motti latini che meglio di qualsiasi altra spiegazione riescono ad esprimere quello che è stato, è e sarà il Festival Paganiniano di Carro: audacia nos ducat, comite fortuna. Che l’audacia ci conduca, se la fortuna vorrà esserci compagna.

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  • Museo

Museo dell’Arte Vetraria Altarese

Altare, Liguria

Secondo una radicata e costante tradizione orale, l’arte del vetro fu anticamente introdotta ad Altare da una comunità benedettina che, rilevate qui le condizioni naturali idonee, si racconta avrebbe richiamato dal nord della Francia ( Normandia o Bretagna), alcuni esperti artigiani. Un confronto con i dati archivistici in seguito acquisiti non infirma quanto riferito.
Sull’isola di Bergeggi (insula Liguriae), presso la chiesetta voluta dalla devozione popolare sul sepolcro di Sant’Eugenio, il Vescovo di Savona Bernardo, nel 992, fece costruire un cenobio affidandone la cura a monaci benedettini chiamati dall’abbazia di Saint Honorat (isole provenzali di Lérins). L’atto relativo è tramandato dal cronista savonese G.V.Verzellino (1562-1638) “non per esteso – rileva Valeria Polonio – ma in abbondante regesto, con tali particolari da garantirne l’autenticità”.
Tra il 1124 e il 1134 le terre di Altare – allora pertinenti alla diocesi di Alba – furono donate dal vescovo Rimbaldo ai cenobiti lerinesi di Sant’Eugenio e una bolla di Papa Innocenzo II in data 20 febbraio 1141 ne confermò loro il possesso. L’insediamento benedettino ad Altare va pertanto inquadrato storicamente in tale contesto.
È opportuno qui ricordare come dall’Alto Medioevo sia le fonti scritte che i dati archeologici testimonino in Occidente di stretti rapporti intercorsi tra i centri di produzione vetraria e i monasteri, dove si inizia a far uso di vetro per le finestre abbaziali. Esigendo poi la chiesa una particolare oggettistica di culto (calici, urne, reliquiari) anticamente le arti plastiche furono esercitate quasi esclusivamente nei cenobi e, comunque, soprattutto a beneficio del clero, cosicché – sottolineano molti autori – le officine vetrarie vennero spesso a gravitare attorno ad insediamenti monastici.
Il Museo dell’Arte Vetraria Altarese, nato all’interno della S.A.V. quale museo d’azienda, oggi è ospitato nelle sale di Villa Rosa ed offre ai suoi visitatori una rassegna di opere che vanno dal 1650 ai giorni nostri,oltre ad attrezzi e stampi per la lavorazione artigianale.
Villa Rosa, in perfetto stile liberty, venne fatta costruire tra il 1905 e il 1906 da Monsignor Bertolotti per la sorella Rosalia, da cui la denominazione.
Il committente affidò la progettazione all’Ingegnere Nicolò Campora, uno dei progettisti più attivi ed aperti alle nuove tendenze dell’architettura internazionale.
La villa fa parte di una serie di edifici liberty che si diffusero nel paese all’inizio del 1900, in gran parte ancora esistenti. Acquistata dallo Stato con diritto di prelazione nel 1992, dopo i restauri la villa è stata riportata all’antico splendore e adibita a sede del Museo dell’Arte Vetraria Altarese.

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